Dubbi a livello comunitario sono stati posti riguardo la compatibilità dell’IRAP, vedendo in essa una sorta di sovrapposizione con l’imposta sul valore aggiunto (I.V.A.).
Vi sarebbero infatti problemi con l’articolo 33[1] della sesta direttiva comunitaria con la quale è stata introdotta l’imposta sul valore aggiunto.
Secondo tale articolo è vietata l’istituzione di nuovi tributi che possano compromettere il funzionamento del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto.
Irap e iva: quali potrebbero essere i contrasti?
Prima di passare a vedere come la questione sia stata risolta a livello comunitario, è bene fare una rassegna sui vari contributi a livello dottrinale per inquadrare in un’ottica più chiara il problema.
C’è chi sostiene che vi sia una sovrapposizione tra le due imposte
Secondo una linea di pensiero l’IRAP è affine all’imposta sul valore aggiunto, tanto che è stata definita una sorta di “IVA-2”[2]; partendo proprio dall’articolo 2 del d.lgs. 446/97, è facile ricavare come l’IRAP si applichi in modo generalizzato a tutte le operazioni commerciali di produzione o di scambio aventi ad oggetto beni e servizi poste in essere nell’esercizio in modo abituale di una attività volta a tal fine, vale a dire nell’esercizio di imprese, arti o professioni.
Per i sostenitori di questa tesi sarebbe evidente la corrispondenza tra il presupposto dell’imposta dell’IRAP ai sensi dell’art.2 del d.lgs. 446/97 [3] e l’area delle operazioni imponibili IVA secondo l’articolo 1 del D.P.R. 633 del 1972 [4]
Ulteriori problemi si configurano riguardo l’oggetto imponibile IRAP, che per sua natura coincide in tutto e per tutto con quello dell’IVA.
Secondo l’art.4 del d.lgs. 446/97 l’imposta colpisce quello che è il valore aggiunto prodotto, proprio come avviene in termini di imposta sul valore aggiunto; ciò che cambia sono solo i metodi di determinazione di tale valore: nell’IVA la quantificazione della quota di valore aggiunto avviene mediante il meccanismo della detrazione dell’imposta da imposta ( mediante differenza tra iva pagata sugli acquisti e iva incassata dalle vendite); nell’IRAP invece il valore aggiunto è ottenuto mediante differenza tra quanto ricavato dalle “vendite” e il costo di acquisto di quanto “venduto”.
Non deve ingannare così la diversità degli espedienti tecnici usati per la misurazione dell’imponibile e dell’imposta: in entrambi i casi l’imposta colpisce quella che è la frazione di valore aggiunto che si è formata presso il singolo produttore che ha preso parte al processo produttivo.
Inoltre al pari dell’IVA, l’IRAP è riscossa su ogni fase del processo di produzione o distribuzione, poiché ogni operatore che si inserisce all’interno di una delle fasi del ciclo (producendo valore aggiunto tassabile) viene elevato, dalla legge, a soggetto passivo di imposta.
Infine è interessante osservare come la somma dell’IRAP pagata nelle varie fasi del ciclo (dalla produzione alla immissione nel mercato) sia pari all’aliquota IRAP applicata al prezzo di vendita di beni e servizi praticato nell’ultima fase del ciclo, ovvero in sede di immissione al consumo.
Nonostante il frazionamento, quindi, l’imposta regionale sulle attività produttive finisce per agire come una sorta di imposta generale e proporzionale al prezzo di cessione al consumo di beni e servizi[5] .
Questa linea di pensiero si pone esplicitamente contro l’esistenza dell’IRAP che, nonostante le sue differenze tecniche, risulta nella sostanza coincidente con l’imposizione fiscale in materia di IVA, in quanto entrambe le imposte colpiscono il valore aggiunto prodotto.
C’è chi invece evidenzia differenze sostanziali tra le due imposte?
Alcuni studiosi[6] invece giustificano l’esistenza dell’imposta regionale sulle attività produttive in virtù proprio della sua natura stessa su cui si basa il tributo di cui sopra, le cui caratteristiche sono talmente peculiari che ne distinguono completamente il suo regime impositivo rispetto a quello relativo all’imposta sul valore aggiunto.
È bene infatti inquadrare il valore aggiunto all’interno dei due regimi impositivi: nell’IVA tale valore si tratta della differenza della maggiore imposta applicata “a valle” rispetto a quella applicata “a monte”; nell’IRAP invece tale valore è costruito “tipo reddito”, ovvero sottraendo dal valore della produzione la generalità di costi, eccetto quelli del lavoro e quelli finanziari.
Quindi mentre l’imposta sul valore aggiunto è rivolta verso un tipo di tassazione sul consumo finale, nell’imposta regionale sulle attività produttive l’imposizione avviene “a monte” , in riferimento alla frazione di valore aggiunto che è stata prodotta.
L’IVA presuppone un consumo finale e tutto il suo procedimento applicativo è costruito dietro la nozione di scambio; nell’IRAP invece manca questa finalizzazione al consumo finale e l’esistenza di un presupposto impositivo è ricavabile indipendentemente da un fatto di scambio.
Questa imposta rappresenta quindi un imposta sul reddito, che si basa sulla ricchezza riferibile al valore aggiunto della produzione, e non ad un’imposta sul consumo.
Diversa risulta inoltre la distribuzione effettiva dei carichi fiscali tra i diversi operatori del mercato, visto che per l’imposta regionale sulle attività produttive non è ammessa la rivalsa. Nonostante sia prevista la possibilità da un punto di vista economico di effettuare un traslazione di imposta, è bene precisare che tale traslazione dipende dalle diverse situazioni di mercato e dai rapporti di forza contrattuale tra i diversi attori economici.
Inoltre visto che la determinazione dell’imposta avviene a consuntivo (ovvero alla fine del periodo di imposta, come per tutte le imposte sui redditi) risulta alquanto difficile trasferire l’onere fiscale su altri soggetti, sotto forma di maggiorazioni di prezzo sui singoli beni o servizi ceduti[7].
Quali soluzioni a questo problema?
Analizzate quindi le differenti linee di pensiero in ordine all’esistenza stessa dell’imposta regionale sulle attività produttive, l’articolo si concentra ora sulla soluzione offerta a livello comunitario.
L’origine dalla controversia è fatta risalire ad un provvedimento di rifiuto dell’Agenzia delle Entrante in riferimento ad un istanza di rimborso richiesta dalla Banca Popolare di Cremona per l’IRAP relativa agli anni 1998 e 1999; in particolare a giudizio della ricorrente nella causa principale, esiste un contrasto fra il decreto legislativo 446/97 e l’articolo 33 della sesta direttiva [8].
Su tale punto la Commissione Tributaria Provinciale di Cremona ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre a alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale: con tale rinvio il giudice chiede in sostanza se l’articolo 33 della sesta direttiva osti al mantenimento di un prelievo fiscale avente caratteristiche analoghe a quelle dell’imposta regionale sulle attività produttive[9].
Secondo la Commissione Tributaria di Cremona l’IRAP è un imposta sul valore aggiunto il cui presupposto coincide nella sostanza con quello dell’IVA; al pari di questa ultima imposta, l’imposta regionale sulle attività produttive si applica in ogni fase del processo di produzione, tanto che la somma dell’IRAP riscossa lungo la catena del valore è pari all’IRAP che fosse applicata al prezzo finale di vendita, configurandola sotto questo punto di vista ad una sorta di imposta sui consumi.
Tale questione ha portato numerosissime società soggette al tributo a promuovere cause di rimborso di fronte alle Commissioni Tributarie, in particolare dopo le conclusioni espresse dall’Avvocato Generale Jacobs (in parte mitigate dall’Avvocato generale succedutogli Stix –Hack).
Lo stesso avvocato generale Jacobs nelle sue conclusioni[10] ha infatti sostenuto che l’imposta regionale sulle attività produttive si tratta di un imposta “che:
- è riscossa su tutte le persone fisiche e giuridiche che esercitano abitualmente un’attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi;
- colpisce la differenza tra i ricavi e i costi dell’attività tassabile;
- è applicata in ordine a ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione corrispondente ad una cessione o ad una serie di cessioni di beni o servizi effettuate da un soggetto passivo;
- impone, in ciascuna di tali fasi, un onere che è globalmente proporzionale al prezzo al quale i beni o servizi sono ceduti;
deve essere qualificata come un’imposta sulla cifra d’affari vietata dall’art. 33 n. 1, della sesta direttiva”[11]. Alla stessa conclusione giunge successivamente l’Avvocato Generale Stix-Hackl, anche se quest’ultimo stabilisce che la sentenza produrrà i suoi effetti solo a partire dell’esercizio tributario durante il quale essa sarà pronunciata, al fine di evitare ingenti rimborsi che provocherebbero gravi malfunzionamenti nel finanziamento regionale in Italia.
Sul mantenimento IRAP si è invece espressa l’Avvocatura di Stato italiana la quale, in un’appassionante difesa, ha sostenuto che tale imposta non sia riferita al consumo, ma solamente alle attività produttive (di beni o servizi) delle imprese o dei lavoratori autonomi.
In particolare i punti su cui si basa la difesa, rilevano come nell’imposta regionale sulle attività produttive manchi un sistema di detrazione analogo a quello dell’IVA e che conseguentemente manchi un meccanismo che assicuri la sistematica traslazione dell’imposta sul cliente; infine l’Avvocatura osserva come la base imponibile non sia costituita da singole operazioni, ovvero da singoli atti di consumo, ma dalla ricchezza prodotta annualmente, delineandosi sotto tale aspetto ad un tipo di imposta sui redditi[12].
Nonostante le posizioni negative espresse dai due Avvocati Generali, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sembra aver condiviso la linea di pensiero su cui si era basata la difesa dell’Avvocatura di Stato italiana, sostenendo a sorpresa nella sentenza del 3 Ottobre 2006 la compatibilità dell’IRAP con il diritto comunitario.
La sentenza di cui sopra ha infatti ritenuto che l’IRAP si distingue dall’IVA in modo tale da non poter essere considerata un’imposta sulla cifra d’affari, “in particolare perché non è proporzionale al prezzo dei beni ceduti o servizi prestati, ma è applicata al valore della produzione netta del periodo di imposta, e perché non è certo che vada in definitiva a carico del consumatore finale, nel modo tipico di un’imposta sul consumo quale è l’IVA, non essendo neutrale nei confronti dei soggetti passivi, i quali non si trovano tutti nella stessa condizione di poterne ripercuotere interamente il peso”[13].
La Corte ha preso consapevolezza del fatto che per l’imposta regionale sulle attività produttive il valore aggiunto sottoposto a tassazione è tassato in quanto ricchezza globalmente derivate dall’attività svolta del contribuente; quindi le singole cessioni e prestazioni rilevano solo indirettamente, nella misura in cui possono concorrere ai fini del calcolo della base imponibile.
Pertanto l’imposizione derivante dall’IRAP non grava sulla circolazione di beni o servizi in modo analogo all’IVA, perché non è un tributo che si basa sugli scambi, ma viene determinata a consuntivo in base a valori globali del periodo di imposta.
Per tale motivo l’IRAP non risulta esattamente proporzionale al prezzo dei beni e servizi, essendo il prezzo di ogni cessione e prestazione solo uno di molteplici componenti di quella base imponibile globale.
[1] L’Articolo 33 della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977 (in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri relative alle imposte sulla cifra di affari) così recita: “Fatte salve le altre disposizioni comunitarie , le disposizioni della presente direttiva non vietato ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte sui contratti di assicurazione , imposte sui giochi e sulle scommesse , accise , imposte di registro e , più generale , qualsiasi imposta , diritto e tassa che non abbia il carattere di imposta sulla cifra d’affari”. Tale articolo è stato sostituito dall’articolo 4 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto.
[2] Tra i sostenitori a livello dottrinale troviamo il Professor Gaspare Falsitta il quale, in un suo articolo, sostiene “Quando, ai primi del 1997, gli italiani si accorsero all’improvviso che ben presto avrebbero dovuto fare i conti con una nuova imposta […] sorse il problema battesimale del nome da dare alla nuova creatura. I nonni (leggasi: Commissione di studio per il decentramento parlamentare) proposero di chiamarla IPAR (imposta per l’autonomia regionale). Nome inappropriato, nome incongruo, posto che per consuetudine, le imposte prendono nome dalla natura dell’oggetto imponibile (reddito, patrimonio netto o lordo, ecc.) e dalla tipologia dei soggetti passivi (persone fisiche, giuridiche, ecc.). È prevalso IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) ma anche questo acronimo racchiude particelle di incongruità perché l’oggetto imponibile della nuova imposta, quell’oggetto che la contraddistingue, non è l’attività produttiva, bensì il valore aggiunto netto derivante dall’attività produttiva. IVAN, dunque, e non IRAP sarebbe il nome più appropriato? […] rispondiamo con franchezza e sincerità, mettendo la mano sul petto: la nuova imposta si sarebbe dovuta chiamare IVA-due”. Si veda G.Falsitta Nuove riflessioni in tema di IRAP, Bollettino tributario di informazioni 1998, fasc.6 pag.487.
[3] Presupposto dell’imposta è l’esercizio abituale di una attività diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. L’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta.
[4] L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate.
[5] In termini giuridici l’unica differenza rilevante tra l’imposta sul valore aggiunto e l’imposta regionale sulle attività produttive, sta nel fatto che in regime di IVA è ammesso l’obbligo di rivalsa, cosa che invece non è prevista in termini IRAP. Ciò non costituisce un problema da un punto di vista economico, visto che è ammessa la possibilità in termini di imposta regionale sulle attività produttive di traslare l’onere impositivo su altri soggetti.
Su questa critica si veda G.Falsitta 1998, op.cit, fasc.6 pp.486-487.
[6] Lupi e Stevanato sottolineano le differenze tra IRAP ed IVA, partendo proprio dal concetto di valore aggiunto della produzione. I due studiosi suggeriscono di guardare non tanto a “cosa” viene tassato (cioè alla manifestazione di ricchezza cui si dirige l’imposizione), ma al modo in cui l’imposizione avviene, cioè a “come” viene determinata l’imposta. Il valore aggiunto così assume contenuti diversi a seconda di “cosa sia aggiunto rispetto a cosa”: nell’IVA si tratta della maggiore imposta applicata “a valle” rispetto a quella applicata “a monte”; nell’IRAP invece il valore aggiunto è invece è invece costruito di “tipo reddito” ammettendo in deduzione la generalità di costi, eccettuati quelli di lavoro e quelli finanziari. Sul punto R. Lupi & D. Stevanato Il valore aggiunto tra IVA e IRAP: le due facce di un equivoco, Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze 2005, fasc. 2 pp. 250-251.
[7] L’IVA quindi è un imposta da ricollegare ai consumi, mentre l’IRAP si tratta di una sorta di imposta sui redditi applicata ai limiti del valore aggiunto prodotto; a favore di tale tesi si sono espressi illustri studiosi come Raffaello Lupi e Dario Stevanato che hanno criticato le conclusioni dell’Avvocato Generale Jacobs e anche quella dell’Avvocato Stix-Hackl.
Sul punto si veda R. Perrone Capano Una bussola nel labirinto dell’IRAP, tra pregiudiziali politiche, limiti giuridici e vincoli di finanza pubblica Rassegna tributaria 2006, fasc.6 pp.1238- 1241.
[8] Causa C-475/03 Banca Popolare di Cremona contro Agenzia Entrate Ufficio Cremona.
[9] L’esame del quesito interpretativo posto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Cremona presuppone alcune considerazioni di carattere generale: la complessità dei prelievi obbligatori che colpiscono gli scambi di beni e di servizi nelle moderne economie fa sì che sia assolutamente impossibile che la disciplina di un’imposta sia identica in tutto e per tutto a quella di un’altra; sarebbe limitante infatti vietare (ai sensi dell’articolo 33 della sesta direttiva) l’istituzione di nuove imposte nazionali solo qualora risultino identiche all’IVA armonizzata. La Commissione comprende in questo senso il costante riferimento della Corte di Giustizia alle “caratteristiche essenziali dell’IVA” in rapporto ai tributi nazionali contestati, che quindi non devono essere identici a quest’ultima (IVA) sotto tutti gli aspetti (punto 21 della sentenza EWG C-437/1997).
È necessario quindi verificare non se l’IRAP sia del tutto identica all’imposta sul valore aggiunto, ma se presenta le “caratteristiche essenziali” dell’IVA. Sul punto P. Rosa Prime battute della Commissione contro l’IRAP sulla coincidenza con il campo d’applicazione IVA, Il Sole-24 Ore del 26 Novembre 2004, n.215 pag.19.
[10] Secondo Raffaello Lupi “trovare del argomentazioni vere nella relazione dell’Avvocato Generale Jacobs non è facile” poiché la relazione espone i fatti di causa, poi riassume parallelamente una serie di caratteristiche tra IVA ed IRAP, confronta alcune ipotesi di applicazione dei due tributi e poi conclude che su tutti i fenomeni assoggettati ad IVA si applica anche l’IRAP; l’Avvocato “giustamente, esclude che l’assoggettamento ad IRAP di manifestazioni economiche escluse dall’IVA possa legittimare il tributo regionale (come avviene ad esempio per l’applicazione dell’IRAP sui salari e stipendi dei dipendenti di enti non commerciali, e per le stesse esportazioni, che però sono indizio di una macroscopica differenza IVA-IRAP di cui la relazione non parla affatto). Gli esempi di manifestazioni patrimoniali colpite da IVA, ma che sfuggono ad IRAP, sono però evidenti, anche se la relazione dell’Avvocato le tralascia del tutto. Una macroscopica manifestazione economica soggetta ad IVA, ma non assoggettata ad IRAP, è rappresentata dalle importazioni, deducibili ai fini dell’IRAP è rappresentata dalle importazioni, deducibili ai fini IRAP e imponibili ai fini IVA; delle importazioni non c’è traccia nella relazione dell’Avvocato generale, che invece cita solo le esportazioni, portate ad esempio di applicazione dell’IRAP anche su una fattispecie esclusa da IVA, che quindi non legittima il tributo regionale. La non imponibilità dell’IRAP delle importazioni era il decisivo esempio delle differenze tra un’imposta orientata al consumo come l’IVA, rispetto una orientata al reddito come l’IRAP”. R.Lupi L’Avvocato Generale “guarda” al valore aggiunto ma non distingue tra consumo e reddito, Il Sole-24 Ore del 31 Marzo 2005, n.56 pag.3.
[11] Conclusioni dell’Avvocato Generale F.G.Jacobs presentate il 17 marzo 2005.
[12] L’IVA si tratta di “un’imposta sugli scambi”, che non tassa la produzione in quanto tale, bensì la produzione oggetto di scambio sul mercato. Lo scopo ultimo dell’IVA è tassare il consumo finale, e il suo meccanismo impositivo è innescato soltanto da atti idonei a trasferire ricchezza prodotta da imprenditori e professionisti lungo la catena produttiva – distributiva e fino al consumo finale. Nell’IRAP invece mance questa finalizzazione al consumo finale e il valore netto della produzione viene apprezzato dal legislatore come “fatto tassabile” indipendentemente da un atto di scambio: la riprova di ciò è che rientrano nell’imponibile IRAP anche variazioni delle rimanenze di merci, quindi una “ricchezza” prodotta e misurabile contabilmente, ma non riconosciuta tale sul mercato. Sul punto si veda: D.Stevanato Lo scopo non è tassare il consumo, Il Sole-24 Ore del 24 Marzo 2005, pag.15.
[13] Fin da prima dell’entrate in vigore dell’IRAP erano sorti dubbi sulla compatibilità comunitaria ed era emersa una profonda disparità di opinioni. Già la Commissione di studio per il decentramento fiscale si era posta il problema, ma sulla base di una sua lettura dei precedenti della Corte di Giustizia (sul punto Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 31 Marzo 1992, C-200/90, Dansk Denkavit, relativa al tributo danese per il mercato del lavoro, applicato sul valore aggiunto di impresa) aveva ritenuto che il divieto riguardasse solo i tributi applicati ad un valore aggiunto di “tipo consumo” e non potesse colpire l’IRAP, poiché rivolta “al reddito”. Parte della dottrina (si veda: G.Falsitta 1998, op.cit, pp.486-487; A.Salvati Alcuni spunti in tema di costituzionalità dell’IRAP, Rassegna Tributaria 1998, pag.1627) tuttavia osservava che tanto l’IVA quanto l’IRAP tassano ciascuna frazione del valore aggiunto formatasi presso ogni singolo produttore e nel complesso finisce per agire come un’imposta generale e proporzionale sul prezzo di cessione al consumo dei beni e servizi. Un’analogia tra i due tributi sembrava infine giungere dalla stessa Corte Costituzionale che, con la sentenza 156/2001, la quale ha individuato il presupposto dell’IRAP nel valore aggiunto della produzione e ne ha affermato la normale traslazione economica sul prezzo dei beni e servizi prodotti. In argomento: R.Schiavolin L’IRAP non è un’imposta “sulla cifra d’affari” vietata dalla VI direttiva IVA, Rassegna Tributaria 2007, fasc.1 pp.316-317.