Cosa è il concordato con continuità aziendale?
Tra le novità più importanti recate dal decreto legislativo n. 83 del 2012 va senz’altro annoverata l’introduzione del così detto concordato con continuità aziendale, disciplinato in massima parte nel articolo 186 bis della Legge Fallimentare (d’ora in avanti “l.fall.”). Per concordato con continuità aziendale è da intendersi quel concordato il cui piano prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio o il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, salva comunque la possibilità di liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa (art. 186 bis comma 1 l.fall.). Con le disposizioni introdotte dal suddetto decreto, vengono dunque ricompresi nella categoria del “concordato con continuità aziendale” tutti quei concordati in cui l’attività prosegue in qualunque modo, o in capo allo stesso imprenditore oppure viene ceduta (o parimenti conferita) a soggetti terzi. È una forma di concordato in cui è prevista una sorta di “esercizio provvisorio dell’impresa” (per usare la terminologia fallimentare dell’art. 104 l.fall.) in vista del ritorno in bonis della stessa impresa oppure del trasferimento a terzi dell’attività/azienda “in esercizio”[1]. Il nuovo art. 186 bis l.fall. fa rientrare nella categoria del concordato con continuità aziendale anche quelli “misto”[2] (e nella prassi sono molti), nel quale l’attività prosegue mediante l’utilizzazione (ovvero, il mantenimento “in esercizio”) di una parte soltanto dell’attivo, ad esempio un ramo d’azienda, mentre altra parte dell’attivo[3] (“non funzionale all’esercizio dell’impresa”) viene liquidata atomisticamente[4].
La novità del concordato con continuità nella legge fallimentare
La novità introdotta con il suddetto decreto sviluppo del 2012 non riguarda tanto la fattispecie, ben potendo in passato il debitore presentare un piano con continuazione dell’attività economica dell’impresa in crisi, ma piuttosto la disciplina. Nella storia passata sia i concordati che gli accordi con continuità aziendale erano modalità applicative già attuabili, ed in concreto anche attuate nella prassi[5], in ragione dell’ampio contenuto che i piani concordatari possono avere ai sensi rispettivamente degli artt. 160 e 182 bis del Regio decreto 16 marzo 1942, n.267. Il regime di flessibilità è, infatti, uno dei tratti dominanti nella disciplina del concordato preventivo, avendo il debitore la facoltà di articolare il piano nel modo che reputa più appetibile per i creditori e, al contempo, meno pregiudizievole per l’impresa[6]. Il decreto sviluppo così, pur non derogando in via di principio a tale criterio di ampia libertà dell’imprenditore nella concreta conformazione della proposta concordataria, introduce norme incentivanti per quei concordati caratterizzati dalla prosecuzione dell’attività dell’imprenditore[7]. Con l’obiettivo così di salvaguardare l’unità del complesso produttivo aziendale, il legislatore ha voluto enucleare, nell’ampio genus concordatario, una figura particolare – il concordato con continuità aziendale – destinataria di una disciplina speciale[8]. Nell’attuale sistema del diritto concorsuale abbiamo, dunque, due diverse figure di concordato preventivo[9]: il concordato preventivo generale o senza ulteriori specificazioni, che è quello di cui agli artt. 160 l.fall. e seguenti e poi il concordato con continuità aziendale, di cui agli articoli 186 bis e 182 quinquies l.fall.
Ma che rapporto c’è tra concordato con continuità e concordato preventivo?
Sulle prime si potrebbe pensare che il legislatore del 2012 abbia contribuito a far chiarezza e a risolvere problemi che la pratica aveva sollevato; in realtà l’intervento legislativo può creare alcuni problemi interpretativi [10]. Fra i tanti quello che ci interessa ai fini di questo lavoro è il preciso rapporto fra la fattispecie e la disciplina del concordato ordinario e del concordato con continuità. Ci si chiede insomma se il concordato con continuità aziendale sia null’altro che una species del più ampio genus concordatario[11] o, di contro, ipotizzare che il concordato con continuità aziendale e concordato preventivo siano due specie di pari dignità, posta l’una accanto all’altra. Muovendo da quest’ultima prospettiva, il concordato ordinario ex art.160 e segg. l.fall. rientrerebbe nelle sole ipotesi di concordato liquidatorio, mentre il concordato con continuità aziendale nelle ipotesi di continuità dell’impresa. Ogni concordato sarebbe compreso per definizione in una delle due figure: se liquidatorio esso sarebbe regolato dall’art.160 l.fall.; se non liquidatorio, alle regole degli artt. 186 bis e 182 quinquies l.fall. [12]. Appare però estremamente limitante non ritenere ammissibile la possibilità di prevedere una qualche forma di continuità anche all’interno del concordato preventivo “ordinario”, vista comunque l’ampia libertà concessa nella formulazione del piano dagli art. 160 e seguenti l.fall.[13].
Il concordato con continuità come disciplina speciale del concordato preventivo
Risulta dunque più opportuno considerare il concordato con continuità aziendale come una disciplina speciale all’interno del più ampio genus del concordato preventivo, a cui è possibile accedervi sotto stringenti condizioni. Gli ultimi interventi legislativi sembrano addirittura favorire l’adozione del concordato in soluzione di continuità[14] – con l’obiettivo di sollecitare proposte volte alla conservazione e al risanamento del complesso aziendale -, prefigurando tale disciplina come unica ipotesi di concordato praticabile in un futuro prossimo. Proprio nell’art. 160 del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, è stato recentemente aggiunto tramite la Legge di conversione 132/2015 un quarto comma che così contestualmente recita: “in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari[15]. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186 bis”[16]. La norma in esame denota espressamente un diverso atteggiamento del legislatore a seconda che il concordato sia liquidatorio o in continuità, in ciò discostandosi sensibilmente dall’impostazione della riforma del 2012, caratterizzata da un favor indifferenziato per la soluzione concordataria[17]. Diverrà centrale allora stabilire quando si sia in presenza di un concordato con continuità, per la differenza di disciplina che il legislatore ha introdotto fra due figure che oggi, diversamente dal passato, si presentano più distinte[18].
Alcune riflessioni riguardo la soglia del 20% ai chirografi
I rilievi sollevati in dottrina destano preoccupazioni visto che molti debitori e molti professionisti per la non necessità di assicurare il pagamento del 20% dei crediti chirografari, si potrebbero indirizzarsi verso la presentazione di concordati in continuità velleitari[19]. Si può ipotizzare che alcuni concordati in continuità non potranno ricevere la valutazione di coerenza con l’obiettivo del miglior interesse dei creditori, perché il miglior interesse sarebbe allocato in un concordato liquidatorio ma improponibile perché non supportato da un’offerta del 20% delle passività chirografarie[20]. L’ulteriore previsione introdotta nell’art. 161 l.fall. dalla legge 132/2015 di conversione del suddetto decreto dove si prevede che in ogni caso la proposta, anche nel concordato con continuità, debba indicare l’utilità specificatamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun debitore[21]. Si tratta di “un brusco passo indietro rispetto alle linee portanti della riforma del 2005/06. Prevedere un’utilità economicamente valutabile a favore di ogni creditore equivale a dire che ogni creditore chirografario deve ricevere denaro od altre utilità dal concordato e che quindi non vi possano essere proposte di concordato, in continuità o meno, che non riconoscano qualcosa a tutti i creditori. Ne deriva che se non è possibile pagare almeno in percentuale minima tutti i creditori, chirografari e non, si deve far luogo al fallimento, distruggendo l’azienda”[22].
Conclusioni
Va tuttavia sottolineato che quest’ultima disposizione se compromette la possibilità di accedere al concordato liquidatorio, può tuttavia avere effetti positivi perché limita l’accesso ad una procedura, il concordato liquidatorio, sulla cui utilità ultimamente sono stati sollevati dubbi. Ed invero si tratta di un procedimento che non ha finalità conservative molto diverse dal fallimento e che eroga ai creditori nulla di più di quanto essi possono ottenere attraverso la liquidazione fallimentare perché non è previsto l’impiego di finanza aggiuntiva in loro favore. Queste ragioni hanno spinto taluni a chiedere l’abrogazione dell’istituto, conservando soltanto il concordato con continuità[23].
[1] Dalla classificazione introdotta dall’art. 186-bis si conferma che attualmente è comunque possibile prevedere anche un piano di concordato meramente liquidatorio dei singoli beni senza prosecuzione dell’attività di impresa. In tali casi, le principali differenze di tale forma di concordato rispetto alla liquidazione fallimentare dei beni in modo atomistico potranno consistere nei tempi necessari per la liquidazione (auspicabilmente minori nel concordato) e nella inapplicabilità al concordato della disciplina della revocatoria fallimentare. Pur ribadendo il principio della massima autonomia nella determinazione del contenuto della proposta di concordato, è evidente che sarà molto scarsa l’appetibilità (sotto il profilo della convenienza per i creditori) di una proposta di concordato che preveda la liquidazione atomistica dei beni in quanto una simile proposta non si differenzia da una procedura fallimentare salvo che per l’inapplicabilità della disciplina della revocatoria.
[2] È importante in questa sede precisare che nel caso di concordato misto deve essere applicata un’unica disciplina, corrispondente alla componente “prevalente” in termini economici e funzionali, soluzione questa preferibile anche alla luce dalle modifiche apportate dal Legge n.132/2015 all’art.160 l.fall. in tema di percentuale di pagamento dei creditori chirografari in caso di concordato liquidatorio, non apparendo infatti “ragionevolmente sostenibile che la presenza di una componente liquidatoria, qualunque essa sia, anche irrisoria, faccia scattare l’obbligo di rispetto del citato requisito”. Tribunale Alessandria 18 gennaio 2016 – Pres., est. Caterina Santinello, in www.ilcaso.it , Sez. Giurisprudenza, 14088 – pubb. 2/2/2016; il Tribunale di Mantova continua, precisando che: “in ipotesi di concordato misto, in parte liquidatorio ed in parte con continuità aziendale, per individuare le norme da applicare nel caso concreto occorre verificare se le operazioni di dismissione previste, ulteriori rispetto all’eventuale cessione dell’azienda in esercizio, siano o meno prevalenti, in termini quantitativi e qualitativi, rispetto al valore azienda che permane in esercizio, quand’anche per mezzo di cessione a terzi” (Tribunale Mantova 19 settembre 2013 – Pres. Alfani – Est. Laura De Simone, in www.ilcaso.it, sez. Giurisprudenza, 9478 – pubb. 26/9/2013).
[3] Risulta opportuno rilevare che il concordato con continuità aziendale è compatibile con la previsione della liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, come espressamente previsto dal primo comma dell’art. 186-bis e come del resto, previsto dalla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi in caso di predisposizione di un programma di ristrutturazione. Sul punto si deve precisare che può essere prevista la liquidazione dei beni non funzionali all’esercizio dell’impresa nella misura in cui non ne è preveduta la continuazione: infatti, poiché la continuità aziendale presuppone il recupero dell’equilibrio economico e finanziario, può essere previsto l’abbandono di determinati settori di attività e, conseguentemente, la liquidazione dei beni sin allora destinati al loro esercizio. PADOVINI F. (a cura di), GUGLIELMUCCI L. Diritto fallimentare, settima edizione, Giappichelli Editore, Torino, pag. 327.
[4] Per ulteriori approfondimenti si veda: ARATO M. Il concordato con continuità aziendale, in Il fallimentarista, Giuffrè Editore, Milano, pag.3.
[5] Nella prassi si erano definiti come “concordati di ristrutturazione” o “di risanamento” quelli in cui l’attività proseguiva, dopo la ristrutturazione, in capo alla stessa impresa, senza cessione a terzi dell’attività. Era, cioè, la stessa impresa che, grazie alla ristrutturazione del proprio indebitamento, ritornava in bonis e proseguiva l’attività. L’altra grande categoria di concordati era quella dei “concordati con cessione” a terzi dei beni, in cui la cessione avveniva per lo più in forma aggregata attraverso il trasferimento dell’azienda a terzi. Ibidem.
[6] Ed infatti, come noto, in dipendenza del percorso che l’imprenditore intende intraprendere per raggiungere gli obiettivi concordatari, il piano può assumere: o carattere liquidatorio (in tale ipotesi il debitore ricorrente perde la titolarità dei beni aziendali, i quali vengono ceduti atomisticamente allo scopo di garantire il soddisfacimento del ceto creditorio con conseguente disgregazione dell’azienda ed il tutto all’interno di un concordato preventivo che, nella maggior parte delle volte, assume natura esdebitatoria); o carattere conservativo (in tale ipotesi la finalità di preservazione e salvaguardia del valore dell’azienda passa attraverso alternativamente una conservazione cosiddetta propria, volta al risanamento soggettivo dell’imprenditore, nel senso che quest’ultimo mantiene la titolarità dei beni, tornando in bonis al termine del processo di risanamento, ovvero una conservazione così detta impropria, che mediante il trasferimento a terzi del complesso aziendale). Infine è possibile prevedere un piano a carattere misto, in cui vi sia un’attività di liquidazione di asset non strategici che l’imprenditore possa dismettere per recuperare risorse da impiegare sia per soddisfare creditori che per finanziare l’impresa. In questo caso si avrà un concordato parzialmente liquidatorio, ma poiché si prevede che l’impresa resti nel governo dell’imprenditore, è evidente che la proposta di concordato preventivo non avrà ad oggetto la cessione dei beni, ma la cessione dei beni fungerà da strumento di acquisizione di risorse (e, dunque, in tal caso, la disciplina della liquidazione dovrebbe essere lasciata all’autonomia del debitore). GIOVANNETTI A. Cessione o conferimento di azienda nel concordato in continuità: aspetti normativi, Paradigma, Milano 8-9 aprile 2013, pp.2-3.
[7] Per un’analisi dettagliata dei vantaggi offerti dalla disciplina speciale del concordato in continuità, si veda: paragrafo 1.3 di questo elaborato e LAMANNA F., La legge fallimentare dopo il “Decreto sviluppo”, in Il Civilista, Giuffrè editore, Mlano 2013, pag.57.
[8] Si veda: NIGRO A. & VATTERMOLI D., Diritto della crisi delle imprese: le procedure concorsuali, terza edizione Il Mulino 2014, pag.352.
[9] Qual è il preciso rapporto fra la fattispecie e la disciplina del «concordato ordinario» – quello di cui agli artt. 160 e segg. della legge fallimentare – e la fattispecie e la disciplina del «concordato con continuità» – quello di cui alle norme citate? A quali condizioni si rientra nell’una o nell’altra fattispecie? In una parola: qual è il quid in senso tecnico-giuridico del concordato con continuità? Sul punto si veda BARCELLONA E., V convegno annuale dell’associazione italiana dei professori universitari di diritto commerciale “orizzonti del diritto commerciale”: l’impresa e il diritto commerciale: innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore nella crisi, Roma, 21-22 febbraio 2014.
[10] La stessa collocazione del concordato con continuità all’interno della legge fallimentare risulta abbastanza incongrua: la disciplina del concordato con continuità è stata inserita nel capo VI del titolo III, rubricato “Dell’esecuzione, della risoluzione e dell’annullamento del concordato preventivo”, laddove invece sarebbe stato più opportuno un inserimento nel capo I. BALDASSARRE I. & PERENO M. Prime riflessioni in tema di concordato preventivo in continuità aziendale in www.ilfallimentarista.it, 3/8/2012.
[11] È di questa opinione NIGRO A. & VATTERMOLI D., Diritto della crisi e delle imprese. Le procedure concorsuali. Appendice di aggiornamento in relazione al d.l. n. 83/2012, conv. dalla l. n. 134/2012, Il Mulino, Bologna, 2013, pag. 19.
[12] Ovviamente, il problema della ricostruzione sistematica non assolve soltanto a interrogativi di estetica geometrica. La posta in gioco è molto più alta: a seconda che si opti per “cerchi concentrici” o “cerchi di pari dimensioni” si è poi in grado di rispondere a questi interrogativi: si applica anche al concordato con continuità la disciplina del concordato ordinario? Dipende l’applicazione della disciplina del concordato con continuità del debitore in crisi o dalla oggettiva conformazione della fattispecie? Si applica la disciplina dell’uno o dell’altro nel caso di piano concordatario che preveda affitto e poi cessione? Sul punto si veda BARCELLONA E., op. cit.
[13] Ai fini di questo lavoro, quello che è interessante notare è che il concordato tout court è definito in termini così ampi da essere certamente compatibili con qualsiasi tipo di concordato. La formulazione dell’art.160 l.fall. rende il concordato ordinario compatibile tanto con la finalità liquidatoria, quanto con quella continuativa. Tutto questo non deve stupire, dal momento che, prima che fossero introdotte le norme relative al concordato con continuità aziendale, nessuno metteva in dubbio che anche un concordato ex art.160 l.fall. protesse essere strutturato secondo forme che garantissero la continuità dell’impresa. “Ritenere, dunque, che l’art.160 l.fall. che disciplina il concordato ordinario o di default debba ritenersi applicabile solo e soltanto a ciò che fuoriesce dal concordato in continuità e cioè ai soli concordati puramente liquidatori, appare piuttosto arbitrario”. Ibidem. Interessante è inoltre la dicitura presente all’interno del nuovo codice degli appalti che permette la gara ad operatori economici che si trovano in concordato senza aver cessato la propria attività; differente era invece quanto dettato nel vecchio art. 38 del d.lgs. 163/2006 che invece limitava l’accesso alla gara solo alle imprese concordatarie come disciplinate dall’art. 186 bis l.fall.. Sembra che il legislatore con questa piccola modifica abbia comunque voluto ulteriormente chiarire la sua ratio in materia di concordato con continuità. Le difficoltà interpretative che si sono create in materia di continuità, hanno costretto il legislatore a precisare che la continuità possa avvenire all’interno del concordato preventivo in generale, e che non debba essere esclusivamente limitata all’interno del concordato in continuità. Non si deve dunque forzare la continuità diretta e indiretta all’interno dell’art. 186 bis l.fall. che, secondo quante detto all’interno di questa Tesi, meglio si addice alla fattispecie di continuità in capo al debitore. La continuità in forma indiretta troverebbe pertanto asilo all’interno del più genere concordato preventivo, prevedendo tra le tante ipotesi quella di continuità in capo a soggetti terzi come l’affittuario.
[14] Il Decreto Sviluppo [decreto legge 83/12], pur non derogando in via di principio al criterio di ampia libertà dell’imprenditore nella concreta conformazione della proposta concordataria o degli accordi di ristrutturazione, introduce norme incentivanti per quei concordati e per quegli accordi caratterizzati dalla prevista prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Sul punto LAMANNA F., op.cit.
[15] Per espressa previsione il quarto comma dell’art.160 l.fall. non si applica al concordato con continuità aziendale. Peraltro, ciò non esclude profili di interferenza fra sbarramento del 20% e concordato in continuità, potendo predicarsi “una sorta di “ribaltamento” di questo requisito di ammissibilità su tale tipologia di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori: di tal che l’attestatore non potrebbe pronunciarsi positivamente tutte le volte in cui l’opzione liquidatoria consenta il raggiungimento del 20% mentre quella fondata sulla continuità no. In primo luogo, la formulazione dell’art. 160 l.fall, è inequivoca nel sancire l’inapplicabilità della soglia minima al concordato in continuità, per cui richiederne il raggiungimento ove essa possa risultare astrattamente attingibile nello scenario liquidatorio (pena la necessità di prediligere quest’ultimo) rischia di porsi contra tenorem legis. In secondo luogo, la nuova disciplina – come ripetutamente osservato – si caratterizza per un favor per il concordato in continuità assai più accentuato rispetto a quello (sensibilmente diminuito) per il concordato liquidatorio, sicché la tesi che obbliga il debitore a presentare un concordato con cessio bonorum al 20% quando vorrebbe (e potrebbe) invece presentarne uno in continuità – poniamo – al 18% potrebbe considerarsi contra rationem legis. AMBROSINI S. La disciplina della domanda di concordato preventivo nella “miniriforma” del 2015, in www.ilcaso.it, 21/8/2015.
[16] La proposta di concordato nella soluzione liquidatoria presenta dunque un contenuto indisponibile e obbligatorio, cioè l’assicurazione del pagamento del 20 % dei crediti chirografari, e uno eventuale, rimesso alla piena disponibilità del debitore (prospettazione di pagamento o soddisfazione nel rimanente 80%). Per quanto detto si veda NARDECCHIA, Le modifiche alla proposta di concordato, in www.ilcaso.it, 2015, pag.12. Ancora: la soglia del 20 % rappresenterebbe l’obiettivo minimale invocato dalle sezioni unite, obiettivo minimale che oltretutto ora sarebbe oggetto di un impegno imposto al proponente con la conseguente possibilità di intervento del giudice ove quella soglia non apparisse raggiungibile (GALLETTI D., È ancora attuale dopo la riforma d’urgenza il tractatus misteriosoficus delle Sezioni Unite?, in www.ilfallimentarista.it”, 23/9/2015).
[17] È proprio i profili distintivi fra le due fattispecie vengono in evidenza dal punto di vista esegetico, giacché risulta oggi più importante che mai appurare cosa debba intendersi per concordato liquidatorio. Per approfondimento si veda: AMBROSINI S. Il diritto della crisi di impresa nella legge 132/2015 e nelle prospettive di riforma, in www.ilcaso.it , 30/11/2015.
[18] Sul punto di veda STANGHELLINI L. & PAGNI I. L’impresa in crisi fra iniziativa del debitore e poteri dei creditori: concordato, accordi con intermediari finanziari, fallimento accelerato dopo il d.l. 83/2015, corso di perfezionamento “il nuovo diritto fallimentare”, Università degli studi di Firenze: dipartimento di scienze giuridiche, Firenze 4 e 23 febbraio 2016.
[19] Addirittura Galletti (in GALLETTI D. È ancora attuale dopo la riforma “d’urgenza” il tractatus misteriosoficus delle sezioni unite?, Op.cit. pag.3) sostiene che l’introduzione dello sbarramento al 20 % segue una “logica incentivatoria forse anche un po’ ipocrita e populistica”, che indurrà ad usi certamente arditi dell’istituto, spingendo a “mascherare” come in continuità piani che altrimenti lo sbarramento del 20% potrebbe impedire, lasciando come unica alternativa praticabile per quei debitori il fallimento. Ed anche a tale proposito l’esigenza che il tribunale disponga durante la procedura di poteri pieni e forti, al fine di prevenire gli abusi, appare insopprimibile; dello stesso parere anche Sotgiu (SOTGIU N., Il nuovo concordato preventivo, in rivista di diritto processuale, n.6/2015, pp.1522-1523) secondo cui tale nuova disposizione si tratta peraltro di una scelta quasi demagogica, posto che solo la prosecuzione dell’attività d’impresa in proprio, eventualmente con un sostegno finanziario esterno, è forma di ristrutturazione del debito ontologicamente diversa dalla liquidazione del patrimonio. La cessione a terzi dell’azienda in esercizio, ipotesi espressamente contemplata dall’art. 186 bis l.fall. è infatti un’attività propriamente liquidatoria, compatibile anche con una procedura fallimentare, che come tale non dovrebbe sfuggire alla previsione di una percentuale minima di soddisfazione.
[20] Un serio piano di concordato che prevede una vera continuità d’impresa è esercizio molto complesso ed anche molto rischioso perché può provocare una distruzione delle aspettative dei creditori concorsuali a beneficio di creditori prededucibili. Sul punto FABIANI M. L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgiche e incerte contaminazioni ideologiche, in www.ilcaso.it , 6/8/2015.
[21] Come sottolinea Panzani (in PANZANI L. Le alternative al fallimento. Il concordato e gli accordi di ristrutturazione dopo il d.l. 83/2015, in Il nuovo diritto delle società, ItaliaOggi, n.21/2015, pp.14-15.), parte della dottrina (si veda ZANICHELLI V., La gestione della crisi di impresa: la via giudiziale e quella stragiudiziale nella prospettiva della contendibilità dell’impresa e dell’attrattività di nuovi finanziatori, relazione tenuta al convegno GRO 2015 “la rivoluzione digitale, nuova leva per l’attrattività dei distretti industriali, Modena 15/10/15) ritiene che l’espressione “si obbliga ad assicurare” significherebbe un mero dovere di previsione del soddisfacimento minimo dei creditori nella proposta, senza assunzione di un’obbligazione di risultato. La tesi, però, non convince fino in fondo; “assicurare” è un sinonimo di “garantire”, vale a dire di compiere atti idonei al perseguimento di un determinato risultato. E se anche si fosse portati a ritenere che non si tratta tanto di un obbligo, ma di una mera previsione, ciò non toglie che tale previsione dovrà essere necessariamente formulata nella proposta e nel piano di concordato.
[22] Sul punto PANZANI L., in op.cit., pag. 17, ribadisce che siamo di fronte ad un serio vulnus alle possibilità di recupero dell’impresa e va ricordato, a questo proposito, che la necessità che ciascun creditore riceva dal concordato denaro od altre utilità riguarda anche il concordato in continuità aziendale che è finalizzato al recupero dell’impresa in crisi.
[23] In questi termini si è orientata la commissione Rordorf per la revisione della disciplina concorsuale istituita dal Ministro della Giustizia.